A volte le occasioni mancate sono le cose migliori che ci possono capitare: la storia di Dario Argento

Ogni lasciata è persa, o almeno è quello che si dice. Ma come sapete sono un’incorreggibile amante del lieto fine e oggi voglio raccontarvi di un’opportunità mancata dai risvolti positivi. La storia è quella del regista Dario Argento, un racconto che lui stesso ha scelto di narrare in prima persona nella sua biografia dal titolo suggestivo “Paura” (Einaudi editore). Non sono mai stata un’amante dei film dell’orrore e devo confessare di non aver mai visto un suo film. Prima di imbattermi nella sua autobiografia, per me Dario Argento era il regista cult di mio papà, che da giovane non si perdeva mai un suo film e l’incubo di mia mamma. Anche se Dario Argento non può certo considerarsi un “laureato pentito” in senso stretto (ha abbandonato la scuola a sedici anni) la sua è sicuramente una storia di metamorfosi, ma soprattutto è la storia di una passione che nonostante le paure continua a pulsare. Una passione che ha iniziato a respirare fin da piccolo, quando nello studio fotografico dei genitori, il prestigioso “Studio Luxardo“, scrutava le dive del cinema muoversi sul set. “Qualcuno sostiene – scrive – che i primissimi piani delle attrici, il trucco eccessivo intorno agli occhi, sono un marchio di fabbrica inconfondibile del mio cinema. Hanno senz’altro ragione, ma quell’impronta era già tutta nel mio sguardo bambino”.

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A quindici anni venne bocciato a scuola e di tutta risposta fu spedito dal padre a lavorare in una tipografia come operaio per qualche mese, convinto che la fatica del lavoro gli avrebbe fatto tornare la voglia di tornare a scuola. E invece, alla fine dell’estate decise di non tornare tra i banchi di scuola. Venne, dunque, prontamente spedito in Francia prima in Costa Azzurra poi a Parigi. Si sà, imparare una nuova lingua può sempre essere utile. “La mia vita da bohémien andò avanti per un po’, finché a un certo punto – scrive – mio padre mi diede un ultimatum: o torni a casa o muori di fame”.  Poche parole semplici ma sempre molto efficaci.

Dopo qualche resistenza iniziale tornò a Roma e con la certezza di non voler riprendere gli studi, decise di dedicarsi a quello che pensava sarebbe stato il lavoro giusto per lui: il giornalista. Ebbene sì! “Mi sembrava una versione più accettabile del mio desiderio di affermazione iniziale – racconta – il mio nome sarebbe entrato ogni giorno in tutte le case, avrei raccontato agli altri ciò che accadeva nel mondo: sì mi piaceva molto questa cosa”. Iniziò a muovere i primi passi nella redazione di un piccolo giornale, L’Araldo dello Spettacolo, per poi passare alla redazione di Paese Sera curando una rubrica dedicata al mondo del cinema. L’impatto con la vita della redazione, molto lontana da quello che nell’immaginario collettivo è la vita dello scrittore che in solitudine si dedica ai suoi articoli, poi le prime interviste. Qui con un po’ di sorpresa, ho scoperto che Dario Argento era timidissimo.  Mi ha colpito perché anche io mi ritrovo in alcune circostanze a combattere con una odiosa timidezza latente che mi rende tremendamente impacciata. “Era una lotta – confessa – mi emozionavo per un nonnulla e sudavo in maniera bestiale. Non volevo neanche stringere la mano al mio intervistato: a nessuno fa piacere toccare una mano molliccia, bagnata”. 

Il passaggio dagli articoli alle sceneggiature è stato lento e graduale. Poi, merito anche di una proposta mai andata in porto da parte del Messaggero, iniziò a dedicarsi al cinema. “In ogni caso – scrive – non ero più così interessato a quel lavoro, se avessi continuato a fare il giornalista magari non avrei mai fatto il regista. A volte le occasioni mancate sono le cose migliori che ci possono capitare”. Il resto della storia la sappiamo già.

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